Nessun accenno di atti di ammenda nei confronti della figura di Giordano Bruno da parte della Chiesa di Roma. Lo scrittore e militante del partito Radicale Paolo Izzo, nella sua lettera eretica ai giornali, aveva chiesto alla Chiesa di fare un atto di ammenda per il sacrificio di Bruno, come per quello dei tanti eretici torturati ed uccisi dalla Chiesa, alle cui parole in tal modo si restituirebbe finalmente un valore di verità. “Anche quest’anno – sottolinea Izzo – è passato in sordina l’anniversario del rogo di Giordano Bruno”. Ad oggi nessuno ha neppure accennato ad una riabilitazione della figura del Nolano.
Colui che ha compreso ciò che ha fatto Copernico e l’infinità dell’universo.
Il filosofo, mago, naturalista, esperto in arti della memoria, Filippo Bruno che prese il nome di Giordano quando vestì il saio dei domenicani, nacque in un sobborgo di Nola, vicino a Napoli, nei primi mesi del 1548 e fu arso sul rogo come eretico impenitente a Roma, in Campo dei Fiori, il 17 febbraio 1600. La scelta d’indossare l’abito domenicano può spiegarsi non per un interesse alla vita religiosa o agli studi teologici – che non ebbe mai, come affermò anche al processo – ma per potersi dedicare ai suoi studi prediletti di filosofia con il vantaggio di godere della condizione di privilegiata sicurezza che l’appartenenza a quell’Ordine potente certamente gli garantiva.
Negò la dottrina Trinitaria, ridusse la figura di Cristo a quella di “cattivo mago” che non aveva neppure saputo morire dignitosamente, chiedendo aiuto “al padre” sulla Croce. Fuggì da Napoli rinunciando con convinzione al saio di frate domenicano. Si recò a Ginevra da aspirante calvinista, ma pure questa dottrina gli si rivelò fallace, come tutte quelle in cui si imbatté peregrinando in tutta Europa, dalla Svizzera alla Francia all’Inghilterra. Tentò di diffondere il sistema Copernicano eliocentrico e l’ipotesi, che egli associò fin da subito a quel sistema, di un universo infinito, incontrando l’opposizione di tutti, ma specialmente degli anglicani inglesi che ci tenevano a tutelare il significato letterale del testo biblico.
Trent’anni prima che Galileo puntasse al cielo il telescopio, vide con i suoi occhi e con la sua mente che la Luna è fatta come la Terra, a riprova che non vi è alcuna differenza di grado e valore tra terra e cielo. Ma soprattutto comprende che l’universo, pur rimanendo sempre lo stesso, appare diverso in relazione al punto di vista di chi lo contempla e che quindi vi sono tanti universi quanti sono i punti di vista, quindi infiniti. Concepì Dio come la forza che anima le cose, che dall’interno le fa vivere, sicché Dio è in tutto e dappertutto.
Esprimere l’Infinità del mondo non era possibile se non adeguando al suo eterno accadere il senso del proprio vivere e del proprio pensare. Negli anni dei suoi “eroici furori” filosofici sfogò il proprio impeto verso questo mondo e non verso una trascendenza nella quale non poteva più credere. Tradito dalla Serenissima che lo consegnò all’Inquisizione di Roma, di fronte al Tribunale di Roma dichiarò di non volersi pentire, di non avere di che pentirsi, e di non sapere di cosa pentirsi.
Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio 1600, con la lingua in giova – serrata da una morsa perché non possa parlare e soprattutto bestemmiare– venne condotto in piazza Campo de’ Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri furono gettate nel Tevere.